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Rita Carelli Feri

"Cerco di leggere nel libro della Natura, su tavola"

“Donne albero, bambini albero, uomini albero. Chi è ritratto da Rita Carelli Feri ha in dono una vita ulteriore, una metamorfosi vegetale. “

Nata a S. Colombano al Lambro. Compie studi tecnici a Lodi. Segue figura  alle serali di Brera ed un corso di affresco a Caprese Michelangelo con Saldarelli . Frequenta laboratori di scultura in legno a Grazzano Visconti, e in terracotta a Savona e Albissola. E’ stata allieva di Luigi Lomanto a Milano.

Socia fondatrice nel 1992 del gruppo Artemisia, ha realizzato progetti di arte terapia. Con Artemisia  è partner culturale del Centro Studi Grande Milano. Insegna pittura in un Istituto Artistico di Pavia. Vive e lavora a S. Leonardo di Valle Salimbene, Pavia

Testi critici

Donne albero, bambini albero, uomini albero. Chi è ritratto da Rita Carelli Feri ha in dono una vita ulteriore, una metamorfosi vegetale.

Carelli Feri dipinge su tavola. Non la soffoca di preparazioni, dell’oblio dei fondi che tutto coprono. Tra i contorni in pigmento purissimo, stesi a secco, dei volti, dell’iride, delle mani, affiora epidermide venata, di legno chiaro.

La sua attenzione al corpo dei soggetti è un atto di fede: non l’ha mai tradito. Sa che lì alligna la mente, abita il carattere, la personalità, lo spirito di chi posa. Ritratti, si viene svelati anche a se stessi. Ci si riconosce passando per gli occhi, per le mani dell’artista che catturano senza possesso, essenza e storia della nostra vita coagulata in simboli: come gli strumenti di precisione tra le mani di una coppia di architetti, come fossero fiori. Ha grande rispetto per il lavoro, la laboriosa artista, in tutti ne cerca vestigia, indizi, indici. Ha capito che il lavoro, frainteso grandemente come procacciatore di pane, realizza il nostro talento, la nostra chiamata, riverbera nello sguardo, nel “lumetto” incandescente sulla pupilla. Anche quando si tratta di lavoro dei bambini, intenti serissimamente al gioco, o di quello nei campi dove la pacatezza misurata dei gesti accompagnano i frutti della terra nei secchi metallici.

Rita Carelli Feri ama il corpo anche nelle case, nelle mura, nelle piazze. Le si può descrivere, se dipinte da lei, come persone. Alcune, notturne, sono pensose e assopite, serene vicino alla veglia di una luce elettrica che argina il buio, come chi dorme col conforto di un lume. Altre sono tutta compostezza e signorilità in un portamento turrito che non si lascia fiaccare dagli anni.

Un campanile è un campanile, anche quando non lavora, anche quando è silenzioso, e il suo compito è terminato. Rimane quello, finalmente messo in chiaro proprio nella notte del non visto, di disegnare il paesaggio tutto attorno, di essere punto di ritrovo, stella polare dei borghi e delle città per orientare i viandanti. Rita ama i borghi, anche dentro la città. Piccole anse di silenzio, scrigni di appartatezza nel nostro comune abitare. Così come accade in Artemisia, dove l’artista da decenni condivide un’esperienza collettiva con altre artiste e amiche (Francesca Bruni, Pea Trolli, Emanuela Volpe, Renata Ferrari) senza mai compromettere il suo, né lo stile espressivo altrui. Ognuna è borgo in una civitas di alleanza, di valori partecipati e sentiti francamente, di collaborazione, di comune amore per la pittura, per il tratto che disegna i corpi, per il colore che li nutre, per il segno che li sintetizza in un alfabeto di gesti, di movimenti, di posture.

Radiografie impalpabili di alberi, con tutto l’intrico circolatorio di rami e rametti come vene e capillari di linfa, generosi di sbocci e fioriture, o trasposti in nuove esistenze che trasformano la morte in un monumento alla vita. Sui tronchi, origami di ombre decorano la luce aranciata e calda che li avvolge a protezione.

Magnifico, fragrante di cromie delicate, di intensità e dolcezza a un tempo, il corpo nudo delle donne evocato dall’école duregarddella pittrice che, tra pochissimi, non costringe a scegliere tra verità e pudore, tra statuarietà e dolcezza, tra volumi e ingombro.

Ognuno è raggiungimento, traguardo tattile di un occhio mai rapace, che accarezza e che coglie esattamente, precisamente, dietro l’epidermide del legno diventata nostra, l’orchestra all’opera delle nostre emozioni, la cassa armonica dei nostri pensieri, la fisiognomica del nostro invisibile.

Cristina Muccioli

Rita Carelli Feri recupera e rivisita questo momento di svolta, fondativo per la comunità che di lì a poco diventerà cittadina, statale, vita organizzata e legata a uno spazio. Sulle sue tavole lignee, omaggio alla più antica tradizione pittorica europea prima del tardivo avvento rinascimentale della tela, Rita disegna con un tratto botticelliano, delicatissimo ma nitido, volti bambini, giovani donne con i piccoli al seno, contadini festosi dopo la vendemmia, agricoltori nei campi a coltivare con pochi, semplici mezzi pomodori e patate, ragazzi con i cappelli a pagoda intenti alla raccolta del riso. Pochi tocchi, dettagli non insistiti a ricordarci che il riso, per esempio, diventato piatto tipico di tanta cucina italiana, viene dall’Oriente, cui siamo debitori. Quella di Rita è una pittura celebrativa, senza enfasi ma convintamente commemorativa di una vita sintonica, armonica con i ritmi di una terra che è madre fecondata dal lavoro dell’uomo. Non dalla predazione scriteriata, ma dal lavoro. Sono felici i suoi personaggi, anzi le persone che pazientemente, certosinamente la pittrice affresca a secco. “Felicità” è enèrgheia per l’autrice, è quella forza che trasforma un campo in cibo, rispettosa di entrambi. La radice della parola felicità, il sanscrito Fe, è all’origine di fecunditas(della terra fertile), di felo (allatto), di ferax (della terra buona e ricca da coltivare), di femina (in quanto genera), di filius per variazione fonetica (il figlio, il frutto), e di felix: dell’annata buona.

Feconda, felice, generosa, vitale, la pittura di Renata Ferrari ritrae donne nude, non svestite. Fa differenza assoluta. Non c’è alcun ammiccamento al potere seduttivo né tantomeno banalmente osceno e provocatorio del corpo femminile stremato dalla fatica di apparire perfetto secondo le mode e i modelli del momento, ossessionato dall’imperativo tutto nuovo del godimento a ogni costo, per cui il piacere è un dovere cui ottemperare coatti, caricaturali, servili, straniati. Le donne di Renata hanno sedi floridi, non gonfiati, fianchi morbidi a coronare il bacino -muro di cinta della prima culla dell’uomo-.“Stanno” al mondo, non “sono” semplicemente al mondo, nella loro, direbbe M. Heidegger, casuale gettatezza, capitate per caso. Occupano il loro spazio con consapevole quiete, e una sorta di dolce assertività: non si può ignorarle, aggirarle, marginalizzarle, perché si pongono al centro di uno spazio che sembra emanare proprio da loro, come acceso riverbero cromatico. Anche sole, come le dipinge sempre Renata nella sua energetica messa a fuoco, queste donne sono fortemente relazionali. Lo dice la loro postura, mai ieratica né totemica. Sdraiate, sedute con le gambe a fare da naturale, elegantissimo sipario, appoggiate pensose al palmo della mano, rinunciano a quella verticalità fiera proprio dell’uomo guerriero, e si fanno emblema dell’accoglienza, della disposizione all’affetto, incline (piegata) alla cura dell’altro.

Cristina Muccioli

“Rita Carelli Feri, è la più introversa fra le artiste di Artemisia: dimostra una intensa capacità introspettiva che si definisce nella ricerca e nella minuziosa messa a punto di un’atmosfera, sempre analoga un quadro dopo l’altro, un volto dopo l’altro, perché, a determinarla, è la stessa sensibilità dell’artista.
La figura però, osservata di preferenza in una condizione di immobilità, ferma, statica quasi per conservare una specie di mistero dell’espressione, è sempre il fulcro da cui emana l’aria che le sta intorno, il tono generale dello spazio, la sua trasparenza cangiante da timbri freddi a timbri caldi, che annegano la linea, slabbrano i contorni, rinunciano persino al taglio più ortodosso, a favore di inquadrature che incidono il corpo, persino la testa, per mettere meglio a fuoco l’ essenziale di una personalità. “

Martina Corgnati

 

VITA Restaurant & Cafè
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